Responsabilità della scienza

Presappoco un mese fa, sui social media, andava finalizzandosi una collaborazione incrociata tra il nostro blog e un altro, locale, appena nato, chiamato Il viaggiatore solitario. La collaborazione, per chi non lo sapesse, prevedeva una sorta di “scambio”: il nostro Michele Mazzoleni pubblicherà testi e vignette sul loro spazio, mentre sul nostro blog ben tre dei loro autori avranno un articolo al mese per potersi esprimere. Primo di questi tre autori, all’esordio assoluto su Bottega di idee, è Lorenzo Aggi, che ci parlerà, come da titolo, di un tema quantomai attuale: la “responsabilità della scienza”.*

“La scienza ha promesso la felicità? Non credo. Ha promesso la verità, e la questione è sapere se con la verità si farà mai la felicità”. Così Emile Zola decise di esprimersi all’assemblea generale degli studenti di Parigi del 1893, riflettendo su quello che è il disagio intrinseco delle scienze forti: il legame indissolubile che hanno con la verità tangibile della realtà materiale. La promessa della scienza espressa da Zola, oltre che essere un vincolo imprescindibile, è anche la forza unica e totale che permette di potersi affidare ad essa e su cui poggiano le conoscenze più solide e sicure che noi umani abbiamo a disposizione. La domanda che viene spontanea da porsi è: la responsabilità dello scienziato è comparabile a quella di una qualsiasi altra autorità che gestisce questioni di rilievo globale?
Ebbene, secondo me sì. Il motivo sta nel fatto che le questioni maggiormente legate alla nostra vita e alla nostra salute, come per esempio l’aborto, l’eutanasia e i vaccini, sono principalmente di natura medico-scientifica. Oltre all’importanza e alla complessità degli argomenti trattati va ricordato che, in un’epoca storica in cui la disinformazione e i complottismi sono favoriti dalla rete, un errore di un’autorità della comunità scientifica non è soltanto una piccola goccia d’inchiostro che va a macchiare la sua carriera ma un nuovo affluente al mare di bufale che la scienza cerca sempre più di contrastare. Perciò ho deciso di concentrarmi proprio su questo ultimo aspetto: la responsabilità delle autorità della scienza e più precisamente del peso dei loro errori da un punto di vista comunicativo.

“Alcune signore in nero, che portano a passeggio il cane, scivolano sotto i portici, lungo il muro. Raramente avanzano fino in piena luce ma gettano obliqui sguardi da giovanette, furtivi e soddisfatti, sulla statua di Gustave Impétraz. Non devono neanche sapere il nome di questo gigante di bronzo, ma, dalla finanziera e dal cilindro, vedono bene che dev‘essere stato qualcuno del mondo elegante.[…] Al servizio delle loro idee solide e ristrette egli ha messo la sua autorità e l‘immensa erudizione attinta negli in-folio che schiaccia con la sua pesante mano. Le signore in nero se ne sentono sollevate, possono dedicarsi tranquillamente alle cure domestiche, portare a passeggio il cane: non hanno più la responsabilità di difendere le idee sante, le 38 idee buone che hanno ereditato dai loro padri: un uomo di bronzo se ne è fatto custode.” — La nausea, Jean-Paul Sartre 1938


Molto spesso capita di pensare la comunità scientifica come un unico blocco omogeneo, una singola macchina che operando in modo simile a una catena di montaggio dà alla luce il suo prodotto: la scoperta.
Vorrei esaminare quelli che sono le componenti di questa enorme macchina, l’eterogeneità di cui è formata, cioè i singoli individui, per poter ponderare l’effettivo peso dei loro errori e le ripercussioni che essi possono avere sull’intera comunità scientifica. È giusto però chiarire quello che è il rapporto dogmatico che le persone possono avere nei confronti della scienza. Ovviamente la cieca sicurezza che a volte riponiamo nella scienza non ha nulla a che fare con il dolce abbandono alla fede che può avere un credente, anche se sarebbe divertente creare un’iconografia scientifica dove al posto della Madonna che tiene fra le dita la filigrana di un rosario vi è Rosalind Franklin che culla una catena di DNA. Rimane comunque sbagliato negare a priori questa fiducia, a tratti dogmatica, che a volte abbiamo rispetto ad una conoscenza scientifica. Sia l’enorme complessità dei temi trattati che la limitatezza delle conoscenze in tali ambiti da parte di un non-specialista ce lo impongono, anche se la precisione del metodo scientifico e il rigore delle istituzioni che si fanno garanti della scienza ci permettono di compiere questo gesto senza troppi rimorsi. La scienza non è dogmatica, non lo è mai stata e non lo sarà mai, ma a volte per inerzia l’atteggiamento nei suoi confronti è inevitabile che lo sia; abbiamo bisogno di poterci fidare anche ciecamente della scienza perché verificarne personalmente le sue scoperte ogni qual volta ne entriamo in contatto è impossibile.
Come detto in precedenza, la comunità scientifica è fatta da singoli uomini — e, in quanto tali, capaci di errori. Fra di essi quelli che ritengo più rappresentativi sono due: uno si connota per un difetto di forma mentre l’altro riguarda il contenuto. Il primo caso si può rappresentare usando come esempio il modo di comunicazione usato da Roberto Burioni, caratterizzato da toni molto forti e da un eccesso di acredine, soprattutto in risposta a persone che non per forza esprimono tesi antivacciniste ma a volte solo perplessità in questioni di ambito medico. È logico che stigmatizzare e umiliare persone che pongono dei semplici dubbi, anche se possono apparire sciocchi agli occhi di uno specialista in quel campo, è un procedimento totalmente controproducente; il risultato di questo atteggiamento sarà che la persona in questione o si allontanerà da tali argomenti o, nella peggiore delle ipotesi, sceglierà l’opzione opposta rispetto a quella proposta dall’autorità. Alla scienza non può che far male un comportamento, da parte dei suoi rappresentanti, da inquisitore o, citando Camus, “da profeta che grida nel deserto e rifiuta di uscirne”.
Il secondo errore assume una dimensione molto più grave del precedente poiché va a supportare ideali di movimenti molto negativi. In questo punto il vizio sta nel contenuto e più precisamente nel fatto che vengono proposte tesi azzardate, da parte di studiosi autorevoli, su temi decisamente delicati, senza la presenza di nessuna prova scientifica. Gli esempi sono i casi di James Watson e Luc Montagnier, ambedue premi Nobel per la medicina. Il primo è legato a dichiarazioni di stampo razziale sulla presunta inferiorità intellettiva delle persone di colore, la quale a suo avviso sarebbe visibile da un punto di vista genetico; mentre il secondo è connesso ad affermazioni di supporto a tesi antivacciniste. Se una persona è razzista o no-vax lo rimarrà a prescindere dalle opinioni di un premio Nobel, ma se la loro idea verrà supportata da un’autorità allora avrà modo di assumere un vigore ancora maggiore e si inchioderà nella loro mente più saldamente che mai. Come le vecchie signore di Bouville, che, guardando la statua di bronzo, senza conoscere nulla del personaggio rappresentato, vedranno un custode delle loro idee, allo stesso modo di queste autorità della scienza non rimarranno che delle semplici statue inermi che si faranno tutori di idee per movimenti razzisti e antivaccinisti. Un errore di un singolo, appartenente ad una comunità autorevole e importante come quella della scienza, va per inerzia a ledere l’intera comunità stessa, soprattutto se l’errore proviene da un suo membro di spicco.
Penso che nel lungo lastricato della scienza, il germoglio della disinformazione più dannoso non cresca ai suoi bordi o al suo esterno, bensì al suo interno, fra le sue crepe e le fessure in cui essa non è coesa.

Lorenzo Aggi

*disponibile qui un ulteriore approfondimento dell’autore.

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